La notte della Rete

Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul sito web della rivista SudCritica l’ 8 luglio 2011.

Nelle ultime due settimane in Italia si è combattuta una battaglia quasi sotterranea, se valutata in base alla copertura che ne hanno dato i telegiornali, ma di importanza fondamentale per la libertà e la modernità di questo Paese: sto parlando dell’approvazione del regolamento su “l’esercizio delle competenze dell’Autorità nell’attività di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica” che l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) ha approvato il 6 luglio, in attuazione della delibera 668/2010/CONS del dicembre dell’anno scorso. 

La prima bozza che l’authority si apprestava a ratificare prevedeva che l’AGCOM stessa si trasformasse in uno sceriffo della rete, con l’obiettivo dichiarato di fare giustizia in piena autonomia dal potere giudiziario, sulla base di un regolamento da essa stessa elaborato e utilizzando allo scopo metodi sommari che non tenessero alcun conto dei diritti e delle libertà fondamentali degli utenti della più grande piattaforma democratica che il mondo abbia mai conosciuto, il tutto con il fine unico dichiarato di tutelare la proprietà intellettuale. 

Uno stravolgimento completo dello stato di diritto, un atto amministrativo con il quale viene a cessare in un sol colpo il principio della separazione dei poteri e il diritto ad un giusto processo.

Nel dettaglio, la bozza di delibera avrebbe conferito alla stessa AGCOM, se approvata nella forma originale, il potere di inibire completamente l’accesso al sito internet “incriminato” se collocato all’estero, mentre per i siti italiani erano previsti due termini, il primo di 48 ore per “giustificare” in qualche modo la presenza del contenuto segnalato e il secondo di cinque giorni per la procedura amministrativa completa davanti all’authority stessa.

Tale enormità assume contorni ancora più agghiaccianti una volta esplicitati gli strumenti attraverso cui l’AGCOM avrebbe di fatto “inibito l’accesso” ai contenuti segnalati: l’utilizzo di una infrastruttura tecnica e organizzativa atta a censurare qualsiasi contenuto della rete raggiungibile dall’Italia, indistinguibile da quella operante in Iran, Cina e Birmania.

La stragrande maggioranza degli italiani infatti non sa che, al di là dei Paesi citati, noti per la loro stringente censura ai danni della loro popolazione, ne esiste un quarto, questa volta occidentale: il nostro.

In Italia, infatti, a seguito del decreto Gentiloni del 2007, è stato istituito un ente indipendente, in seno alla già indipendente AGCOM, il CNCP. E’ talmente indipendente da essere impossibile trovare informazioni a riguardo al suo ruolo né sul sito dell’AGCOM ne su qualsiasi altro sito istituzionale. Il CNCP è tecnicamente in grado di sovvertire i server DNS e di filtrare qualsivoglia indirizzo IP, in pratica è in grado di minare le stesse fondamenta infrastrutturali della internet italiana, con il supporto coatto degli Internet Service Provider, ovvero di quelle stesse aziende che forniscono la connettività ai cittadini: esattamente lo stesso meccanismo del “Great Firewall of China”.

La paura che si verificassero progressivi abusi nell’utilizzo di questi strumenti, inizialmente giustificati con la lotta alla pedopornografia, si è rivelata fondata: a circa una anno dall’entrata in vigore del provvedimento, dalla tutela dei minori si è passati alla tutela di interessi economici, sfruttando i blocchi di stato per censurare i siti di giochi e scommesse online che non versavano le tasse all’AAMS, quindi all’oscuramento di siti esteri in seguito a provvedimento preventivo dell’autorità giudiziaria, come nel caso di The Pirate Bay, ed ora si rischia di dare la possibilità a un’autorità amministrativa e fortemente lobbizzata di cancellare qualsiasi contenuto su internet in totale autonomia.

Dopo la mobilitazione che la rete italiana ha saputo mettere in campo, la bomba sembra essere stata in parte disinnescata. Il 7 luglio, infatti, l’AGCOM ha rilasciato un comunicato stampa, che riporta alcuni passi indietro rispetto alle bellicose intenzioni iniziali: niente inibizione all’accesso dei siti internet, possibilità di ricorrere, in qualsiasi momento, al Giudice ordinario e soprattutto l’esclusione dall’ambito di applicazione della nuova disciplina di tutte le forme di utilizzo non commerciale dei contenuti coperti da diritto d’autore, purché non in contrasto con l’utilizzo commerciale degli stessi.

Se il contenuto del comunicato stampa riassumesse davvero fedelmente il regolamento (ancora non pubblicato), allora si tratterebbe di un provvedimento quasi inutile, e che anzi introdurrebbe concetti importanti come il “fair use”, assolutamente sconosciuti nel vetusto ordinamento italiano (l’attuale legge sul diritto d’autore, pur se con qualche integrazione, risale al 1941). Verrebbe quindi da chiedersi quale sia la motivazione di ciò che è accaduto negli ultimi mesi, il perché di tanti soldi spesi per giungere a questo che lo stesso Guido Scorza definisce un “mini-regolamento”, il lavoro di uffici, lobbisti e associazioni di categoria, senza parlare delle paginate sui quotidiani acquistate dalla SIAE con soldi pubblici per difendere la prima bozza, il perché di una improvvisa accelerazione, tesa a chiudere il dibattito prima dell’estate. Come riporta infatti Luca Nicotra, segretario dell’associazione Agorà Digitale, i colloqui con Calabrò sono stati importantissimi nel chiarire che «non c’era alcuna volontà da parte dell’autorità di dialogare. Calabrò […] non ha neppure tentato di giustificare quello che stava per fare l’autorità. E’ stato davvero evidente che […] stava facendo un salto nel buio. Per esempio abbiamo detto a Calabrò che i provider avranno grosse spese per rimuovere i contenuti dal web e lui ci ha risposto che non lo sapeva, che non gliel’avevano detto. Non ha mai risposto con numeri e criteri oggettivi alle nostre critiche. […] Questa accelerazione non può non essere dovuta anche al contesto politico italiano, – continua Nicotraal contesto di estrema instabilità, in cui bisogna evidentemente stringere prima possibile per ottenere il più possibile, […] si vuole normalizzare un contesto difficile da controllare come il web [per favorire] i grandi poli […] come Mediaset […] e sicuramente anche la RAI. […] Poi ci sono altri alleati come l’industria dell’intrattenimento, della musica e del video che evidentemente ha qualche riluttanza ad aggiornarsi ai tempi».

La verità è che  il pericolo è ancora presente, l’AGCOM ha ancora il coltello dalla parte del manico e i difetti presenti nel testo che verrà sottoposto a consultazione pubblica per 60 giorni sono molti: innanzitutto l’authority assegna a se stessa un potere ben maggiore di quello conferitogli dalla legge, ovvero per “ogni contenuto sonoro, audiovisivo, giornalistico ed editoriale coperto da copyright diffuso su reti di comunicazione elettronica” anziché per i soli contenuti audiovisivi. La definizione di soggetti “che esercitano attività per scopo non commerciale” è molto ambiguo nella sua formulazione, i tempi, fissati in 48 ore, e le modalità, esclusivamente via PET, sono lesivi del diritto di difesa e dimostrano, come scrive Guido Scorza dalle colonne del Fatto, «una colossale ipocrisia dell’Autorità che sa perfettamente che in un intervallo di tempo tanto breve nessun gestore di sito internet e/o di piattaforma di condivisione di contenuti sarà mai in grado di formulare e trasmettere osservazioni difensive su di un contenuto che, peraltro, è stato prodotto e pubblicato da un terzo». Fumose e di difficile collocazione giuridica restano anche le regole riguardanti i siti ospitati all’estero. «Inaccettabile – continua Scorzal’idea che l’AGCOM si riservi il diritto di irrogare salatissime sanzioni pecuniarie per l’ipotesi di violazione di provvedimenti da essa stessa sommariamente adottati – e, quindi, con un ampio margine di errore – in forza di regole da essa medesima scritte, in gran parte, senza disporre della necessaria copertura normativa».

Possono i cittadini italiani affidare compiti tanto delicati ad un’autorità indipendente solo a parole (ricordiamo tutti le recenti intercettazioni nella cosiddetta “inchiesta di Trani”), composta da membri dalle modestissime competenze specifiche, che mai in questi anni è riuscita a rappresentare gli interessi dei cittadini? Davvero può un organismo del genere fare le veci della magistratura quando ciò che c’è in gioco è la libertà di espressione? Può davvero essere considerata indipendente un’autorità che ha dimissionato l’unico commissario non allineato, Nicola D’Angelo, e ha nominato al suo posto Antonio Martusciello, ex dirigente di Publitalia?

La delibera rischia seriamente di permettere a questi signori di rimuovere i post, i video, le creazioni di ogni cittadino della rete, a sua insaputa e senza alcun contraddittorio, nella migliore delle ipotesi per finanziare le tasche dell’industria dei contenuti, già supportata abbondantemente con le tasse e i balzelli più salati d’Europa, o nella peggiore, per permettere al potente di turno di censurare, ad esempio, un video satirico caricato su YouTube, con la scusa che in sottofondo ci sono 15 secondi di una canzone degli anni ’70 o contiene una foto scattata dal fotografo ufficiale del palazzo.

I politici dell’opposizione, dopo essersi riempiti la bocca con “lo straordinario successo della rete” in occasione dei referendum di giugno, ora si limitano a fare timide accuse al governo, che nicchia sulla questione, scaricando ogni responsabilità sugli uffici di Calabrò. Questa delibera è l’ultima tessera di un mosaico in puro stile bipartisan, che inizia dal già citato decreto Gentiloni, passando per gli irricevibili ddl a firma Carlucci e Barbareschi e infine sfocia nel perverso programma del ministro Paolo Romani. I nostri politici puntano a trasformare il web in una grande tv, copiandone le caratteristiche peggiori, a partire dalla totale assenza di pluralismo e dalla completa irreggimentazione. E sorprende che gran parte dell’opinione pubblica, con qualche lodevole eccezione come i promotori della “Notte della Rete” (Adiconsum, Agorà Digitale, Altroconsumo, Assonet, Assoprovider, Avaaz.org, Popolo viola, Radicali italiani, Studio Legale Sarzana & Associati, Valigia blu), si dimostri completamente passiva di fronte a tematiche così fondamentali.

Conviene a tutti, nonostante la spiaggia, tenere gli occhi aperti e prestare attenzione a quello che accadrà nei prossimi due mesi presso gli uffici del Garante, sperando che non si dimostri ancora una volta indipendente solo dagli interessi dei cittadini.